una questione di metodo

Ripropongo anche per i lettori di questo blog un articolo che ho scritto per il numero 12 della Newsletter FIAMO, luglio 2021.

C.S. Peirce (1839-1914), chimico, matematico e filosofo americano, diede un importante contributo nell’ambito della logica che oggi definiamo epistemologia, o filosofia della scienza.

Nel suo saggio The Fixation of Belief (1877) descrive metodi diversi che possono essere usati per comunicare le convinzioni, ma solo uno di essi, il metodo scientifico, è il più adeguato per giungere alle conoscenze più certe della realtà, sulle quali fondare le azioni pratiche più adeguate.

Il metodo della tenacia adotta l’atteggiamento di rimanere fisso nell’opinione iniziale, sicuramente rassicurante, ma ha il difetto di ignorare le informazioni contrarie e il punto di vista degli altri, come se la ricerca della verità fosse una questione ristretta ad un gruppo di interesse privato, e non un percorso condiviso da tutta la comunità.

Il metodo dell’autorità sostiene la verità di una convinzione in quanto affermata da un’autorità riconosciuta. In passato poteva essere la Bibbia o un altro testo sacro, qualche grande filosofo dell’antichità, nel presente può essere uno scienziato particolarmente stimato, un’organizzazione affidabile, un’istituzione autorevole, i media generalisti o di settore, ecc. Il metodo dell’autorità tende a superare il disaccordo con metodi sbrigativi e a volte brutali. Può assicurare successi considerevoli e di lunga durata, ma non riesce ad evitare che il dubbio cresca progressivamente, sino a porre in crisi le convinzioni che difende.

Il metodo a priori promuove la conformità alle convinzioni in modo meno aggressivo rispetto al principio di autorità, ma adotta le opinioni come se fossero dei gusti, scegliendo ciò che è più gradevole secondo il pensiero corrente.

Il metodo della scienza è il contesto in cui l’attività di ricerca prevede che la realtà sia investigabile e i risultati siano esenti da opinioni particolari, così che l’investigazione della realtà possa dare risultati che progressivamente siano criticati, corretti e migliorati. Le ipotesi sottoposte al vaglio della scienza, seguendo il metodo scientifico, possono essere falsificate o confermate; in questo modo la scienza può mantenersi libera da pregiudizi, da interessi di parte, da convinzioni autoritarie e da opinioni alla moda.

 

Nel 2005 Shang et al. pubblicò in The Lancet una metanalisi comparativa tra studi randomizzati con gruppo di controllo in omeopatia e in medicina convenzionale, concludendo che, mentre gli studi in medicina convenzionale mostravano una forte evidenza di efficacia terapeutica, quelli riguardanti l’omeopatia avevano debole evidenza di efficacia.

Nello stesso numero di The Lancet, l’articolo di Shang fu preceduto da un editoriale che suonava la campana a morto all’omeopatia, The End of Homeopathy: “… nonostante 150 anni di risultati sfavorevoli… Più è diluita l’evidenza a favore dell’omeopatia, maggiore sembra essere la sua popolarità.” Richiamava i medici ad essere determinati ed onesti con i loro pazienti riguardo all’inefficacia dell’omeopatia ed inoltre ad essere attenti alla necessità dei loro pazienti, che chiedono cure individualizzate e centrate sulla persona.

Secondo l’editoriale, la popolarità dell’omeopatia sarebbe dovuta alla richiesta dei pazienti di un approccio olistico, non alla capacità dell’omeopatia di rispondere efficacemente alle necessità cliniche dei pazienti. La ricerca da parte dei pazienti di approcci alternativi al modello medico tecnologico centrato sulla malattia sarebbe mal riposta in assurde diluizioni, e minaccerebbe le cure convenzionali e il benessere dei pazienti stessi.

Concentricamente, nello stesso numero, un commento di Jan P. Vandenbroucke ricordava che già 160 anni prima John Forbes aveva comparato i risultati dell’omeopatia, per alcuni disturbi, con quelli delle terapie convenzionali da lui utilizzate. Poiché tale studio aveva evidenziato efficacia simile dell’omeopatia e dell’allopatia, e siccome l’omeopatia appariva implausibile ed inspiegabile, Forbes aveva concluso che molto probabilmente l’allopatia dell’epoca era poco efficace e che

“1… in una larga parte dei casi trattati dai medici allopatici, la malattia è curata dalla natura, non dai medici…

  1. … in una parte minore di casi … la malattia è curata dalla natura, nonostante le cure allopatiche, che interferiscono con la natura…
  2. … e quindi sarebbe meglio per i pazienti che la maggior parte dei farmaci allopatici fosse abbandonata”

Piuttosto che chiedersi cosa mancasse alle proprie conoscenze per spiegare un fenomeno comprovato dai fatti, Forbes era disposto a mettere in discussione buona parte dell’utilità terapeutica dei farmaci allopatici in uso all’epoca.

Nel suo commento in The Lancet, Jan P. Vandenbroucke concludeva ipotizzando che l’articolo di Shang avrebbe soddisfatto i molti oppositori, ma anche provocato la reazione di coloro che avrebbero accusato la meta-analisi di difetti nell’analisi dei dati e della metodologia.

Infine, nello stesso numero del 2005 The Lancet riportava la notizia delle accese critiche mosse dagli scettici contro una bozza di documento dell’OMS in cui, come era avvenuto nel 2003 a favore dell’agopuntura, l’omeopatia veniva presentata molto favorevolmente, sostenuta da revisioni sistematiche, meta-analisi, studi di efficacia clinica ed economica, studi osservazionali. Gli oppositori accusavano l’OMS di aver trascurato di considerare gli studi che mostravano risultati sfavorevoli.

 

Le previsioni di Vandenbroucke furono ampiamente confermate dai fatti.

Da parte degli oppositori dell’omeopatia, dal 2005 sino ad oggi lo studio di Shang è stato continuamente citato come lo studio che, in modo scientifico ed inappellabile, ha posto la pietra tombale sull’omeopatia come sistema terapeutico, in quanto privo di efficacia e plausibilità. Da diversi anni ormai l’omeopatia è citata in buona parte della letteratura scientifica convenzionale come l’esempio più evidente di pseudoscienza.

Le feroci critiche contro l’omeopatia sono proseguite in questi anni con tenacia ed includendo scienziati ed istituzioni autorevoli, fondando molti argomenti sullo studio di Shang.

Dall’altro lato, non sono mancate numerose e circostanziate critiche allo studio di Shang, riguardanti soprattutto difetti metodologici e scelte arbitrarie nell’analisi e nella selezione dei dati.

Chatfield e Relton hanno scritto una critica dettagliata alla metodologia utilizzata da Shang.

Peter Fisher et al. qualche mese dopo la pubblicazione dell’articolo di Shang, inviavano una lettera a The Lancet sottolineando i molti difetti metodologici della meta-analisi che avrebbe dovuto decretare la fine dell’omeopatia. Inoltre, sottolineavano che Shang aveva completamente trascurato i più recenti studi sulle preparazioni ultramolecolari, per poter perpetuare l’affermazione riguardante l’implausibilità dell’omeopatia.

Walach et al. così concludeva il commento critico riguardante la metodologia usata nell’articolo di Shang: “Siamo convinti che l’omeopatia sia stata esaminata in modo inadeguato in questo contesto”

Robert G. Hahn nel 2013 ha pubblicato un articolo in cui esamina il percorso delle meta-analisi che hanno investigato l’efficacia dell’omeopatia, concludendo che quella di Shang era la più debole in termini di adeguatezza metodologica.

La critica più severa all’articolo di Shang è arrivata da K. Linde, autore della precedente meta-analisi sull’omeopatia, pubblicata da The Lancet nel 1997.

Nel dicembre 2005 Klaus Linde, commentando l’articolo di Shang, scrive a The Lancet che sono evidenti almeno due difetti fondamentali nella meta-analisi:

“Innanzitutto, Shang e colleghi non seguono le linee guida accettate e pubblicate per riportare le meta-analisi. Nel 1999, The Lancet ha pubblicato la dichiarazione QUORUM per migliorare la qualità dei report delle meta-analisi e le linee guida della Cochrane Collaboration sono elencate nelle istruzioni per gli autori. Shang e colleghi non hanno seguito nessuna di queste linee guida, né The Lancet è intervenuto. La dichiarazione QUORUM richiede chiaramente che le meta-analisi presentino “dati descrittivi per ogni prova” e “dati necessari per calcolare le dimensioni dell’effetto e gli intervalli di confidenza”. Shang e colleghi non riportano gli studi esclusi dalla revisione, le valutazioni di qualità e gli odds ratio di tutti gli studi inclusi nella revisione, né quali otto studi sono stati inclusi nella meta-analisi finale. Questa mancanza di dettagli è inaccettabile in un articolo che trae una forte conclusione clinica.”

“In secondo luogo, i problemi con il raggruppamento dei dati (pooling) non vengono discussi. Il raggruppamento dei dati delle sperimentazioni cliniche ha senso solo se tutte le sperimentazioni misurano lo stesso effetto. Nella nostra meta-analisi del 1997, abbiamo giustificato il raggruppamento di diversi interventi, condizioni e risultati sulla base del fatto che, se l’omeopatia è sempre un placebo, tutte le prove misurano, in linea di principio, la stessa cosa. Ci sono grandi limitazioni associate a questa ipotesi…”

“… limitare un’analisi agli studi più grandi rischia di produrre un risultato falsamente negativo. Inoltre, poiché l’analisi principale si basa solo su otto e sei studi (probabilmente non abbinati), il risultato potrebbe facilmente essere dovuto al caso, come suggerito dagli ampi intervalli di confidenza. Dati questi limiti, la conclusione di Shang e colleghi che i loro risultati “forniscono supporto all’idea che gli effetti clinici dell’omeopatia siano effetti placebo” è una significativa esagerazione.”

The Lancet dovrebbe essere imbarazzato dall’Editoriale che ha accompagnato lo studio. La conclusione che i medici dovrebbero dire ai loro pazienti che “l’omeopatia non ha alcun beneficio” e che “è passato il tempo per… ulteriori investimenti nella ricerca” non è affatto supportata dai dati. La nostra meta-analisi del 1997 è stata purtroppo abusata dagli omeopati come prova che la loro terapia ha prove di efficacia. Ora troviamo estremamente deludente che un’importante rivista medica abusi di uno studio simile in modo totalmente acritico e polemico. Una filosofia sovversiva non serve né alla scienza né ai pazienti.”

 

Nel 1991 Kleijnen et al. aveva pubblicato una meta-analisi nel BMJ che concludeva per una evidenza dell’efficacia clinica dell’omeopatia.

Nel 1997 K. Linde et al. concludevano la loro meta-analisi, pubblicata su The Lancet, affermando che i risultati non sono compatibili con l’ipotesi che gli effetti clinici dell’omeopatia siano dovuti completamente a placebo.

E’interessante come entrambe le metanalisi, nella discussone dei risultati, inaspettatamente a favore dell’omeopatia, lamentassero la mancanza di un meccanismo d’azione plausibile come impedimento principale ad un commento decisamente più favorevole.

Così scriveva Kleijnen et al. nel 1991 “La quantità di evidenze positive in favore dell’efficacia clinica dell’omeopatia è stata per noi una sorpresa. Basandoci su questa evidenza, saremmo pronti ad accettare che l’omeopatia può essere efficace, se solo il meccanismo d’azione fosse più plausibile.”

“L’evidenza presentata in questa meta-analisi sarebbe probabilmente sufficiente per confermare l’utilizzo dell’omeopatia almeno per un certo numero di situazioni cliniche.”

Più avanti gli stessi autori si chiedevano “I risultati degli studi clinici randomizzati … i risultati delle meta-analisi sono convincenti solo se c’è un meccanismo d’azione plausibile? O questo è un caso speciale perché i meccanismi d’azione sono sconosciuti o implausibili?

 

A conclusione di questo breve viaggio nella lunga storia degli studi sull’efficacia clinica dell’omeopatia, rimaniamo con l’interrogativo se, nei confronti dell’omeopatia, sia sempre stato utilizzato il metodo scientifico o abbia prevalso a volte il metodo della tenacia, dell’autorità o l’aprioristico pregiudizio.

E lo studio di Shang, con tutte le sue debolezze metodologiche che sono state evidenziate anche da ricercatori indipendenti, può essere ancora considerato un argomento scientificamente valido contro l’omeopatia?

 

Con le parole di Giuliano Preparata siamo richiamati alla figura dello scienziato, curioso e libero investigatore della Natura:

“Lo scienziato vero, quando osserva un fatto reale, se non ci crede, significa che non ha gli strumenti per capire come questo fatto avvenga; e invece che portare alla ridicolizzazione del fatto osservato, lo scienziato vero, lo scienziato curioso, dovrebbe darsi da fare per vedere cosa manca nella visione che viene convenzionalmente accettata per poter riportare i fenomeni osservati, una volta che sono stati riprodotti senza dubbi, nell’ambito della razionalità scientifica.”

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